Mr. G., cinque anni compiuti, è deluso: dall’uovo fresco che ha fatto covare al suo orsetto di peluche non è nato un pulcino, come tanto sperava. «Mamma, dobbiamo farlo covare da qualcosa di più caldo!», ha esclamato proprio stamattina. «Amore mio, purtroppo non potrà mai nascere un pulcino… », gli ha spiegato, schietta, mamma Elisa. «Quell’uovo non è stato fecondato, dentro non c’è alcun semino che diventerà un pulcino». «E allora dobbiamo metterci il semino, mamma! Ma… come si fa?», ha chiesto il piccolo candidamente. «Sai, Mr. G., se ci fosse stato un gallo, avrebbe messo di sicuro il suo semino nella pancia della gallina, che poi avrebbe fatto l’uovo fecondato: così sarebbe nato un pulcino». «Wow! Ma allora è davvero una magia!».

È adorabile l’ingenuità dei bambini. Fa tenerezza la meraviglia con cui spalancano gli occhi dinanzi alle cose ‘da grandi’. E fa intenerire di più sapere che a provare un tale stupore di fronte ai miracoli della natura è un bimbo speciale che, a dispetto dei suoi pochi anni, di vite ne ha già vissute almeno due e di viaggi della nascita ne ha affrontati altrettanti. Perché è stato doppiamente amato e doppiamente voluto: da chi l’ha donato al mondo prima, e da chi nel mondo ha desiderato fortemente accompagnarlo dopo. Una doppia nascita in piena regola, quindi. Vi ho assistito io stessa più di una volta e ne ho avuto conferma in seguito, quando è successo anche a me, da chi era lì, al di là di quella porta a vetri, ad aspettare trepidante il nuovo arrivo, dopo il viaggio che dalla ‘pancia del mondo’ portava dritto dritto alla ‘pancia del cuore’. Funziona sempre così: ogni volta, ad un tratto, quella porta si apre, una ‘nuova famiglia’ la attraversa e, come davanti alla porta di una sala parto, si diventa testimoni di una nuova nascita. Spesso accade, però, che ad oltrepassare quella porta siano dei neo-nati che non hanno bisogno di essere spinti dai genitori nelle loro carrozzine, perché sanno già camminare con le proprie gambe: così li si vede avvicinarsi, timidi e spauriti, mentre lentamente trascinano il loro mini trolley. È molto emozionante, certo, ma assai arduo, questo viaggio della vita. Fa paura e spesso provoca molto dolore, specie nei bambini più grandicelli, ancora incapaci di comprendere e gestire il forte senso di smarrimento che li assale: così scoppiano in un pianto dirotto, inconsolabile e liberatorio, che assomiglia a quello dei bimbi appena tirati fuori dalla pancia della mamma, ma forse è più disperato: è il pianto di chi dal luogo poco accogliente e privo di calore, ma ormai familiare e dunque rassicurante, nel quale viveva, all’improvviso si ritrova catapultato in un altrove ignoto, che non sa se è veramente bello come gli hanno raccontato. È il pianto di chi si sente di colpo perduto, quasi privato della propria identità e inconsapevole di ciò gli che accadrà.

Con un fardello così pieno e pesante sulle spalle è stata davvero un’impresa per me e mio marito portare i nostri figli a vedere Inside Out, l’ultima creazione della Pixar, il fenomeno cinematografico del momento. Un gran bel film, senza dubbio: intelligente e coinvolgente, curato, originale e a tratti imprevedibile, geniale e coraggioso. Un capolavoro, insomma, che fa tanto ridere e fa anche tanto piangere. Eppure, per chi ha vissuto un’esperienza sconvolgente come quella del viaggio della vita, per andare a vederlo ci vuole pelo sullo stomaco. Mi ero documentata, avevo letto diverse recensioni, sicché ero preparata: sapevo bene che sarebbe stato impossibile per i miei bambini evitare di immedesimarsi nella storia di Riley, che insieme ai suoi genitori affronta il trauma di un trasloco. Ero consapevole che quel turbinio di emozioni, che invade la console mentale di quella ragazzina in un momento cruciale della sua vita, avrebbe assalito anche la loro mente e ne temevo le conseguenze. Non ho potuto sottrarmi all’impegno già preso, così mi sono fatta forza: ho riso pochissimo e pianto per niente, per rimanere concentrata ad osservare le espressioni sui loro volti e farmi trovare pronta, in qualsiasi momento, ad accoglierli tra le mie braccia. Non avevo previsto però che avrebbero cominciato a piangere a fiotti all’unisono, gli unici in tutta la sala, dinanzi alla scena più toccante della pellicola. «In quel momento mi sono rivista in Riley, mamma», mi ha raccontato all’uscita dal cinema la mia primogenita. «Ho pensato a quando vi ho conosciuti, a quando mi hanno detto che dovevo venire in Italia, ma io continuavo a ripetere che non volevo: sono nata in Russia e in Russia dovevo restare. E poi ho pensato a quando sono arrivata all’aeroporto e mi sentivo confusa: non capivo chi fossero i nonni e tutte quelle altre persone venute lì ad aspettarci. E poi mi sono ricordata che, quando ho visto la nostra casa e la cameretta nuova, non capivo più nulla e mi chiedevo cosa fosse questo e cosa fosse quello. Però poi ho capito che era bello il posto in cui mi trovavo e ora sono contenta di stare dove sto e di avere la famiglia che ho». Completamente diverse invece sono state le emozioni che hanno scatenato il pianto di mio figlio piccolo, il quale si è rivisto in Riley mentre si allontana dai suoi genitori e ha realizzato in un istante quanto siamo stati in pena suo padre ed io in quei lunghi minuti durante i quali è sparito nella stazione di servizio, al centro commerciale e per le strade di un paese di montagna. E quando gli ho chiesto se avesse pianto anche per ciò che aveva lasciato, mi ha risposto senza esitare: «No, mamma. Io non ho lasciato proprio niente», come se per lui non ci fosse stato un prima, ma soltanto un dopo, e la sua vita fosse iniziata con noi.

C’è voluto pelo sullo stomaco, non posso negarlo. Ma è altrettanto vero che sono grata di non essermi sottratta quella sera. Mettere a fuoco ciò che si è vissuto e ciò che si è stati guardando un cartone animato e abbandonandosi ad un pianto copioso e irrefrenabile è una gran bella rivoluzione interiore. Fa crescere. E crescere, come accade a Riley, significa non solo lasciarsi alle spalle qualcosa che è stato e che non tornerà, ma anche rivedere se stessi da una nuova angolazione, acquisendo maggiore consapevolezza. Significa tornare indietro, per un attimo, attraversare di nuovo quella porta a vetri e dunque rinascere, ancora una volta.

Ai nonni,

preziosi angeli custodi delle attese, delle nascite e delle rinascite,

nel giorno della loro festa.

Francesca Sivo

Bari, 2 ottobre 2015

P. s. La foto di copertina è stata scattata da Elisa, la mamma creativa di Mr. G.

Di orsi e uova, cartoni animati e viaggi