Scrivere per ragazzi: questo il tema del viaggio nel mondo dei libri e della scrittura condotto da Nadia Terranova tra le mura di una libreria pugliese, in un freddo weekend d’inverno. Un workshop pensato per chiunque avesse in mente una storia da scrivere o da illustrare o per chi fosse soltanto curioso di esplorare un genere letterario dalle molteplici possibilità, in grado di indurre i lettori in età adulta a cambiare lo sguardo.

Partecipai a quel corso come allieva, portando con me un’idea nella testa e migliaia di parole nel cuore. Parole ancora confuse, tutte da tirare fuori. Mi mancava la chiave, per mettere ordine in quell’intricato groviglio di pensieri, sì da farne un racconto che sapesse dar voce ai bambini e alle loro emozioni, e divenire esso stesso strumento per superare la paura della narrazione.

“Cosa hai pensato, quando ti è venuto in mente di scrivere il tuo libro?”, mi ha chiesto a bruciapelo un bambino in una scuola primaria. Proprio attorno a quel tavolo – ho spiegato a lui e ai suoi compagni – in quel freddo weekend d’inverno, mentre mi scorrevano sotto gli occhi alcune tavole malinconiche e poetiche, dipinte dalla mano dell’artista Aurelia Leone, ho cominciato pian piano anche a vedere delinearsi dinanzi a me il sentiero giusto da seguire.

Ho immaginato che a parlare fosse una bambina, spinta dal forte desiderio di essere ascoltata dalla sua maestra, per raccontarsi e provare con il suo aiuto a ricomporre i pezzi del puzzle della propria (pur breve) esistenza, per riempire di senso tutti i vuoti che l’avevano caratterizzata fino a quel momento, rendendo nel tempo sempre più sfumati i suoi ricordi e lasciando vuote anche le pagine di quaderno su cui annotarli.

Fonte di ispirazione era stata per me la difficoltà ad affrontare con la mia prima figlia, in seconda primaria e da pochi mesi in Italia, il racconto dei suoi primi anni di vita, da lei avvertiti come “diversi” rispetto a quelli dei suoi compagni, nati e cresciuti nella propria famiglia biologica.

Domande dettagliate sulla nascita, sul primo dentino e la prima malattia, la prima caduta e il primo giocattolo dell’infanzia, l’avevano messa in seria difficoltà, in classe e a casa, e in un momento in cui avrebbe avuto bisogno, invece, di essere presa per mano e guidata nel processo di elaborazione di ciò che aveva segnato quei grossi cambiamenti.

I suoi compagni avevano portato ecografie, foto e ricordi dell’infanzia. Noi non avevamo nulla. Però cominciammo a raccontare, partendo dalla traccia che ci era stata assegnata: “Quando la mamma mi aspettava, tutti erano felici…”

E ne ribaltammo la prospettiva. L’arrivo della bambina nella nostra casa era stato accompagnato non da una carrozzina, spinta attraverso la porta a vetri di un reparto di maternità, ma dalle sue stesse gambe insieme a un piccolo trolley, trascinato oltre la porta a vetri di un aeroporto.

Fu allora che maturai la idea di scrivere un testo dedicato alle maestre, ai loro allievi e a chiunque desiderasse riflettere non solo sull’esperienza dell’adozione, ma anche sul disagio che talvolta i bambini provano nel ripercorrere il proprio vissuto difficile.

E così, sull’onda di quell’idea e dall’incontro tra me, Aurelia Leone e l’editore Gino Dato, è nato il libro Un vuoto nella pancia. Lettera a una maestra, edito dalla Casa editrice Progedit (Bari 2018). Un albo illustrato per bambini e ragazzi (ma non solo), che rappresenta un’occasione per meditare sul bisogno, sulla speranza e sulle innumerevoli e sorprendenti possibilità che i bambini stessi hanno di raccontare la propria storia “diversa”, in modo guidato ma spontaneo e libero dai canoni talvolta imposti dai programmi e dai libri scolastici, e per dimostrare inoltre che nessun individuo è uguale a un altro, ma che ognuno è speciale a suo modo e porta con sé un bagaglio che va accolto, custodito, valorizzato in quanto sempre foriero di nuove scoperte e grande ricchezza.

In un percorso parallelo di immagini e parole delicate e struggenti, questo libro ripercorre pertanto una storia di dolore e speranza, di nostalgia e amore, per scioglierne i nodi e riempire di senso quel vuoto che preme sulla pancia, lasciando imbrigliate a fior di labbra tutte le parole, e per mostrare che, a volte, parlare non serve ma che, prima o poi, le parole tornano, se – semplicemente – ci si sente accolti per ciò che si è.

Questo articolo è apparso per la prima volta sulla pagina culturale de “La Repubblica” di Bari (28 novembre 2018) con il titolo La mia fiaba per le maestre sulla bellezza dell’adozione.