È arrivato Settembre e si è già fatto sentire. Sarà stato per il forte temporale di stanotte, per quei lampi accecanti e quei tuoni roboanti, che dalle quattro in poi non ho più dormito. O forse no. Forse non è stato solo il temporale. E neppure dev’essere stato soltanto il peso del corpo di mio figlio, completamente spalmato sul mio, a non farmi chiudere occhio per tutta la notte, complici quei lampi e quei tuoni. No, non credo proprio.

C’è stato un tempo, cara Ministra Lorenzin, in cui ho sofferto tanto. Ogni giorno, per molti anni. Ho cominciato a soffrire quando, a ventinove anni, dopo aver rischiato sul serio di morire, ho aperto gli occhi dopo una doppia anestesia e ho scoperto che al mio corpo ormai qualcosa di molto prezioso mancava. O meglio: che qualcosa che prima avevo ormai non c’era più. E allora i medici presero a dirmi che, se avevo intenzione di “fare un figlio” (come odio quest’espressione: i figli si donano al mondo, non si fanno), non dovevo perdere tempo. Certo che volevo dei figli, neanche a dirlo! E stavo per sposarmi. Ma la paura e il presentimento di non poterci riuscire mai, dopo quel maledetto giorno di gennaio, cominciarono ad accompagnare le mie giornate, spingendomi ad intraprendere una lunga e velocissima corsa contro il tempo. Avevo solo trent’anni, ero ancora giovane (o almeno così diceva il mio orologio biologico), ma dovevo correre, perché la strada davanti a me era impervia e tutta in salita. Così cominciò la sofferenza mensile, quella della delusione che aumenta quando il ciclo mestruale ritorna puntuale e ti fa piangere ogni volta più forte e più a lungo. E poi venne la sofferenza che prova solo chi entra ed esce continuamente (sottolineo: continuamente) dagli ospedali pubblici e dalle cliniche private, per sottoporsi a qualunque (ripeto: qualunque) genere di cura, esame, intervento più o meno invasivo, per capire cosa nel mio corpo non andasse e cosa potesse o dovesse essere messo a posto, in modo da preparare una “culla” confortevole e adatta ad accogliere la creatura tanto desiderata. Tutto doveva essere perfetto, mi dicevano  i medici. Medici bravi e meno bravi (alcuni dolcissimi, altri proprio ciucci e presuntuosi, va detto!), del sud e del nord: sapesse quanti ne ho consultati, cara Ministra! Talmente tanti che a volte ho scherzato e ancora scherzo con alcune mie amiche, quando mi chiedono consigli in merito: «Ce l’ho, ce l’ho… mi manca!», un po’ come da piccoli con i doppioni delle figurine Panini. Sembra una barzelletta, lo so. E adesso ci rido su; ma le assicuro, cara Ministra, che allora da ridere non mi è scappato mai. E aggiungo purtroppo: perché sdrammatizzare in certi frangenti aiuta. E invece no, allora non ridevo affatto; piangevo piuttosto, piangevo di nascosto lacrime amare, per ore, quando da chiunque (davvero dico: da chiunque, sconosciuti compresi), senza un briciolo di tatto e con un’invadenza becera, mi sentivo braccata: «E tu, che aspetti? Devi darti una mossa! Ma sì, goditi la vita adesso, ché poi, quando arrivano, ti succhiano pure l’anima!». Frasi di questo genere, giuro; e soprattutto da donne (le peggiori nemiche delle donne stesse, si sa) e senza la minima considerazione del fatto che ognuno ha il suo carico di sofferenza, ma nessuno ha il diritto di metterci bocca. Perché l’utero e la fertilità non sono affatto «un bene comune».

L’involucro doveva essere perfetto, mi dicevano quindi i medici, ma a me mancava qualcosa. E più mi affannavo a cercare la perfezione, più “l’imperfezione” del mio corpo si faceva evidente ai miei occhi. Quella brutta cicatrice sulla pancia stava lì a dirmi, ogni mattina e ogni sera, quanto imperfetto e quanto inadatto ad accogliere una vita fosse diventato il mio corpo, dopo quel maledetto giorno di gennaio. Qualcosa in me non funzionava come doveva. Ma cosa? E perché? Non si riusciva a venire a capo di questo “mistero”. Intanto i giorni, i mesi, gli anni passavano e le lancette del mio orologio biologico sembravano girare sempre più rapide. Perché io sapevo bene che la sabbia nella clessidra si stava pian piano esaurendo, ma più gli altri me lo facevano notare, più la mia sofferenza aumentava. Quello fu anche il tempo in cui vedere tutte quelle pance lievitare intorno a me mi faceva star male. Le vedevo proprio ovunque. Non avevo le allucinazioni, eh: c’erano davvero. E vederle mi faceva male. Adesso mi fanno tenerezza, ma allora mi facevano un male cane. Per questa ragione, pur sforzandomi al massimo, non riuscivo a mettere da parte, per un attimo, la mia sofferenza e a gioire pienamente con e per le mie amiche incinte. La domanda che mi risuonava nella testa era sempre la stessa: perché a me no? Sì, proprio così. Io non mi chiedevo perché a loro: lo ritenevo normale, naturale. Mi chiedevo piuttosto perché quella non potesse essere anche la mia normalità. E mi sentivo incompleta. Inadeguata. Sbagliata. In difetto. Innanzitutto come donna. Poi come moglie. E poi anche come amica. I sensi di colpa erano una valanga. Ed io mi sentivo travolta. E impotente. E incapace di razionalizzare su di essi e respingerli. Ma quali sensi di colpa, poi? E per cosa? Per non riuscire a dare a mio marito ciò che più desiderava, nonostante mai, e dico mai, lui mi abbia fatta sentire come io mi sentivo allora. Per non riuscire a congratularmi con le mie amiche, e soprattutto con quelle più attente, così straordinariamente dolci e premurose da chiamarmi in disparte per condividere la loro gioia e da piangere con me, quasi si sentissero in colpa a loro volta. Solo Sandra era capace di spiazzarmi e farmi ridere, proprio lei che dentro moriva di dolore, il peggiore che un genitore possa provare, ma che non aveva perso ancora la voglia di scherzare: «Tu fai, fai sempre e non ti preoccupare: vedrai che arriverà. E se non arriverà, non ti preoccupare lo stesso: almeno te la sarai goduta!». Ridevo tutte le volte.

Ero finita in un imbuto, però. E vi avevo trascinato dentro tutti i miei sogni e i miei interessi, il mio lavoro, le mie amicizie, il mio matrimonio. Non ero più io. Non sorridevo più. Tutta la mia esistenza era ormai concentrata su quell’unico obiettivo. E più le aspettative venivano disattese, più l’obiettivo diventava distante e il mio senso di delusione, di frustrazione, di solitudine cresceva. Ho rischiato di perdermi, cara Ministra. Perdere davvero me stessa e tutte le cose belle che avevo con fatica conquistato fino ad allora. Alcune, purtroppo, le ho perse sul serio. Perché non le vedevo più. Non vedevo più niente. Ero annebbiata dal dolore. Avevo perso di vista il centro. E non riuscivo ad elaborare quel lutto. Il lutto per un figlio tanto cercato e mai nato. Solo quando ho toccato il fondo e mi sono accorta che più giù proprio non potevo andare, ho capito e finalmente ho iniziato a vederci più chiaro. Ho constatato, per dirla con Marta Verna (Nessuno esca piangendo, Novara 2016, p. 91), «la mia impreparazione alla semplice eppure tragica consapevolezza che le cose, a volte, non vanno come avremmo voluto. Ecco il centro. Il centro della mia frustrazione. Le maledette aspettative disattese». Ho capito che le cose non vanno sempre allo stesso modo per tutti, ma che ci sono cose che, semplicemente, accadono o non accadono, oppure che accadono, ma a ciascuno in modo diverso. E questo vale anche per la maternità.

Si può essere fecondi pur non essendo biologicamente fertili. E laddove l’utero stenta ad allargarsi, arriva il cuore a fare spazio. Perché l’amore si moltiplica, non si divide. E la maternità non è un merito, né una corsa ad ostacoli e contro il tempo, ma un dono. Non è un dovere e nemmeno un diritto acquisito. Non è per tutte e non è neppure uguale per tutte. Ecco perché espressioni come “essere sterile” o “non avere figli” sono lesive dell’identità femminile, che non si fonda solo sulla sua fertilità biologica, ma va ben oltre questa. Perché, oltre che di un “contenitore” biologico più o meno idoneo, ogni donna è naturalmente dotata di una propria forma morale ed etica, che la porta, spesso, a concepire una relazione al di fuori del proprio ventre, a guardarla e a comprenderla nel profondo, e quindi a prendersene cura al di là del sangue e del cordone ombelicale. Non si tratta di una strada senza uscita e nemmeno di un’ultima spiaggia, ma di un modo diverso e proficuo per canalizzare le energie, facendo luce sugli innumerevoli e vani tentativi di procreazione precedenti e considerandoli non più come un mero fallimento o un’occasione irrimediabilmente perduta, ma come un “sentiero alternativo” per giungere alla meta.

Da madre adottiva dico che molte sono le strade per diventare madre. Da donna che ha rischiato di perdersi, invece, dico che ogni desiderio che diventa ossessione è pericoloso, per se stesse e per la coppia. Ecco perché, cara Ministra, la campagna pubblicitaria del Fertility Day, promosso dal suo Ministero e previsto per il 22 settembre prossimo, mi lascia attonita. Perché in quegli slogan (obiettivamente brutti e tecnicamente tutt’altro che efficaci) ho rivisto i fotogrammi di quegli anni difficili della mia vita e le frasi che più ho odiato sentirmi dire. Perché, per come è stata concepita e pubblicizzata, l’iniziativa mi sembra un altro colpo vile, ingiurioso e sessista inferto alla libertà e al corpo femminili. Perché questa giornata non solo non farà che acuire il senso di frustrazione e la sofferenza di molte donne, che ogni giorno provano invano a rimanere incinte, oppure che non possono neanche provarci per le ragioni più varie e legittime, ma anche porterà ad incrementare e rafforzare certi pensieri e certe convinzioni, che invece fanno parte di un retaggio culturale contro cui da tempo ormai si combatte. E perché, anziché alla fertilità ad ogni costo, il mio pensiero va non solo a chi i figli li partorisce, ma poi non è in grado di prendersene cura, ma anche a chi, impossibilitato a procreare, percorrerebbe volentieri altre strade, se solo lo Stato gli fornisse il giusto supporto per farlo.

Per tutte queste ragioni quindi – e anche a nome delle tante coppie che, con grandi sacrifici, si accingono ad affrontare il loro viaggio della vita – al suo Ministero e al nostro Governo chiedo con forza che, oltre a quelli già previsti per coloro i quali decidono di ricorrere alla fecondazione assistita, vengano stanziati anche dei fondi  per chi sceglie di adottare. Non è, infatti, anche l’adozione una forma vera e utile di politica sociale? Perché va benissimo incentivare le nascite in un paese a bassa natalità (a patto che lo si faccia nel modo giusto e con la sensibilità e la delicatezza che la questione richiede), ma ridurre l’uso differenziato di certi cassonetti per le nascite indesiderate sarebbe ancora meglio.

Grazie.

Francesca Sivo

 

* Il titolo di questo pezzo riprende quello di una canzone di Elio e le Storie Tese e mi è stato suggerito da mio marito.