Fresca di questi giorni è la notizia che la Lombardia, regione ricca e all’avanguardia anche per l’erogazione dei servizi finanziari, ha stabilito di non concedere il bonus bebè ai figli adottivi appena arrivati a casa, poiché l’assegno – ha chiarito il Governatore – «è una misura per la natalità, non a sostegno della famiglia: viene dato al bambino che nasce, non al bambino che viene adottato». Parole che fanno male – anche a chi come me ha da tempo concluso la procedura di adozione (in un’altra regione per giunta) – a sostegno di un provvedimento iniquo e discriminatorio, che ha immediatamente spinto le Associazioni Familiari adottive e affidatarie del Coordinamento CARE a lanciare una petizione sulla piattaforma change.org, raggiungendo in un baleno l’obiettivo delle 1500 adesioni. Io ho firmato. E adesso voglio spiegare meglio perché, in particolare a chi poco o nulla sa dell’universo adottivo.

Mio marito ed io non abbiamo avuto, purtroppo, la possibilità di guardare attraverso un monitor ad alta tecnologia il corpo dei nostri bambini formarsi e crescere cellula dopo cellula, mese dopo mese. Le due foto che ci mostrò la referente russa al momento dell’abbinamento (avvenuto dopo giorni di grande dolore), però, sono state per noi una prima, vera ecografia: la prova reale e tangibile che due cuori battevano in una cittadina russa ai confini con l’Estonia e che la nostra ‘gravidanza a due’ era davvero iniziata. Parlo di ‘gravidanza a due’ perché – cosa incredibile a dirsi! – le mamme e i papà adottivi concepiscono, portano avanti la gestazione e partoriscono insieme, alla fine di un iter annoso e travagliato. Non è facile da immaginare, mi rendo conto, eppure è così. Non ci sono di mezzo pance che lievitano, ma una comunione di intenti, motivazioni forti e infinite prove da superare; innumerevoli e approfonditi esami clinici e reiterati e sfibranti colloqui con sconosciuti a cui dover svelare la propria intimità, di singolo e di coppia; pile di documenti e ore ed ore di attesa, visite domiciliari e spese ingenti, lunghi viaggi ed interminabili udienze. Tutti test difficili da sopportare e superare, che il più delle volte rafforzano l’unione delle coppie, ma talora rischiano di dividerle, perché ne saggiano la solidità e la forza in modo pressante e indefesso, e non per nove mesi, ma per molti anni. Tutti test che tuttavia, a differenza di una gravidanza biologica, hanno un merito indiscusso, ma poco noto ai più: pongono l’uomo e la donna sullo stesso piano, coinvolgendoli entrambi allo stesso modo in ogni singola tappa del percorso e rendendo indispensabili il contributo, la costanza e l’impegno dell’uno e dell’altra, per giungere alla meta. Ne fanno, insomma, i co-protagonisti di uno dei più sensazionali miracoli della vita: la creazione di una nuova famiglia. Anzi, ad onor del vero, debbo dire che nel nostro caso il ‘parto’ è avvenuto grazie ad una prodigiosa quanto inaspettata inversione di ruoli: è stato proprio mio marito, infatti, ad affrontare, sicuro spavaldo perfino ironico (e in piedi per oltre due ore e mezza su quattro), il travaglio dell’udienza in un tribunale straniero, a rispondere alle incalzanti domande della giudice russa, lasciando a me (che per un attimo ho pure vacillato) la parte più semplice dell’interrogatorio. Ma non è solo questo a dimostrare che ogni adozione è una nascita. E non soltanto la nascita di una famiglia, ma anche la nascita di una mamma e di un papà e soprattutto la nascita (o meglio: la ri-nascita) di un bambino.

Molti non sanno, ad esempio, che i neo-genitori adottivi non si limitano a preparare la cameretta e ad acquistare tutto il necessario (quindi spesso anche pannolini e passeggini) per accogliere il loro bambino come qualsiasi genitore naturalmente fa, ma quando si recano in istituto a prendere i propri figli per portarli a casa per sempre, recano con sé una borsa piena di vestiti nuovi (dalla biancheria intima alle scarpe, dal giubbotto ai guanti) che altro non è che l’equivalente della borsa che le partorienti portano con sé in ospedale al momento del ricovero. I bambini adottivi, infatti, vengono affidati ai loro genitori nudi, come la madre biologica li ha donati al mondo. Una seconda nascita in piena regola, dunque. Oltre che un momento molto intenso e commovente: il primo incontro intimo tra padri, madri e figli. Il momento in cui anche i genitori adottivi possono provare finalmente l’emozione più forte che ogni madre biologica generalmente (e fortunatamente) prova: quella di stringere per la prima volta tra le braccia, nudo e indifeso, il proprio bambino, come fosse appena venuto fuori dal proprio grembo. E anche in questo caso, posso dirlo, mio marito ed io siamo stati fortunati, poiché abbiamo potuto vivere entrambi, nello stesso istante, questa grande emozione, ‘distribuendola’ equamente tra noi: mentre io mi occupavo della femminuccia, a lui è toccato vestire il maschietto.

Ma non basta. Il giorno in cui siamo atterrati tutti e quattro all’aeroporto, ad aspettarci trepidanti ed euforici, dietro la porta a vetri, c’erano i nonni, gli zii e molti nostri amici, che non vedevano l’ora di abbracciarci e festeggiarci come nuova famiglia. Per questo motivo, quando abbiamo attraversato quella porta, per loro è stato come assistere ad una nuova nascita, proprio come se quella porta a vetri fosse la stessa di una sala parto. E tutti hanno pianto di gioia.

Arrivati a casa, sulla porta abbiamo trovato due bei fiocchi, uno rosa ed uno azzurro, che i nonni avevano appeso per noi il giorno prima, come vuole la tradizione quando nasce un bambino. Due fiocchi che conservo ancora gelosamente, che annunciavano al mondo che finalmente due nuove creature erano giunte ad abitare e ad arricchire la nostra casa e che, insieme ai palloncini e ai festoni di benvenuto con cui la zia aveva decorato la cameretta, si facevano latori di un grande messaggio di gioia per il presente e di speranza per il futuro. Un futuro che sarebbe stato negato, se la nostra strada non avesse incrociato la loro. Un futuro che rappresenta un investimento e al contempo un guadagno non solo per noi come nucleo familiare, ma anche per la società.

Per chi poi veniva a trovarci per conoscere i bambini e dare loro un regalino (come si usa fare anche con i neonati) avevamo preparato un ricordino: dei confetti multicolori a forma di farfalla, simbolo (e auspicio) di cambiamento e libertà.

Nei primi mesi della nuova vita a quattro inoltre, anche noi abbiamo fatto fatica a comunicare con i nostri figli: conoscevamo poche parole di russo, abbiamo dovuto arrangiarci con tutti i mezzi che avevamo a disposizione per capirli e farci capire. Ma soprattutto anche noi, come i nostri amici che sono genitori biologici e all’inizio si sono trovati alle prese con i pianti talvolta incomprensibili e inconsolabili dei loro bambini appena nati, abbiamo fatto ricorso (da allora in poi) all’uso dell’unica lingua universalmente nota: quella dell’amore.

Francesca Sivo

N.B. L’illustrazione, intitolata La cura tenace e selezionata per la mostra Woman Innovation, è di Francesca Quatraro.